Taking Notes, part II – di Saki
“Il mio nome è John Watson. Dottor John Watson. Qualche mese fa ho accompagnato un collega a visitare un… membro della famiglia reale, e c’è stato… un incidente, ecco. Uno spiacevole, all’epoca inspiegabile incidente che non mi costringerete a raccontare.” Strinse i denti con un moto di orgoglio patriottico.
Il Dottore annuì. “Una mutazione aliena, cellule di emovariforme. Posso soltanto immaginare che cosa abbiate provato alla prima luna piena. Eravate terrorizzato, in balìa di istinti primordiali, ogni cellula del vostro corpo che lottava per mantenere il controllo. Ma siete un medico, una mente scientifica. Avete cercato le prove di… incidenti analoghi avvenuti a Palazzo?”
L’espressione del dottor Watson era sempre più sbalordita. “Sì, ma certo, era mio dovere. Ho scoperto i nomi di queste persone, ho cercato di contattarle. Alcuni erano più o meno in controllo, come me. Altri si erano tolti la vita. Altri ancora avevano ceduto alla bestia, e non solo nelle notti di luna. Non mi ascoltarono, ormai mi consideravano un nemico.”
“E avete lottato. Forse avete tentato di non uccidere, almeno la prima volta, ma non è stato possibile.”
Lui scrollò la testa.
“La vostra posizione vi ha permesso di compilare referti falsi. Se chi ha trovato i corpi la mattina seguente aveva dei dubbi sulle modalità dell’assassinio, è stato ben felice di venire smentito dalla vostra opinione professionale. Dopotutto, anche i vecchi omicidi dello Squartatore presentavano delle incongruenze tra loro.”
“Ora conoscete la verità. Non erano vittime innocenti. Lo sono state all’epoca, ma non a causa mia. Ma dovete lasciarmi andare, devo continuare il mio lavoro. Devo farmi carico dell’autopsia anche questa volta, e poi-”
“Temo sia troppo tardi, dottor Watson” decretò il Dottore.
“È stata l’ultima volta. Non ne ho trovati altri, non ne cercherò più. L’epidemia è quasi sicuramente scongiurata” lo pregò, quasi paonazzo in volto.
“È troppo tardi. Letteralmente.”
L’uomo si frugò in tasca, ne trasse l’orologio e si fece nuovamente di cera. “Mio Dio… fatemi uscire!”
Non appena la porta del TARDIS si aprì, il dottor Watson corse in strada e piombò addosso a un ragazzino che vendeva giornali. L’edizione della sera, la sera del giorno dopo. Troppo tardi.
Tornò alla cabina, traballando, gli occhi spenti.
Donna scoppiò a ridere, ma non era una risata divertita. “Figuriamoci! Com’è che dici sempre? Il tempo è una palla fluttuante. Torniamo indietro un attimino. Facile come sgranocchiare un biscotto!”
L’espressione del Dottore era calma, ma perentoria. L’uomo cercò invano un appiglio in quello sguardo freddo.
“Voi potreste…?” L’incredulità non aveva più posto.
“Ma certo!” incalzò Donna. “TARDIS, tempo e relativa dimensione nello spazio! Tutto è relativo, sì, ci sono delle regole, ma non penso proprio che un lupo mannaro a Londra sia uno di quei bruuuuuutti punti fissi nel tempo, giusto?”
“Non è un punto fisso, Donna. È semplicemente sbagliato. Io vi riporto indietro… voi confermate che il nuovo Jack lo Squartatore ha mietuto un’altra vittima, mentre gli abitanti di Londra continuano a vivere nel terrore che la prossima possa essere chiunque. Non sarebbe giusto.”
John Watson guardò nel vuoto, incapace di reagire.
Poi fece un passo, un altro ancora, allontanandosi nuovamente dal TARDIS, dall’impossibile, in direzione di Scotland Yard.
L’ispettore Lestrade era molto, molto stanco. L’isterismo in città stava salendo, e la stampa non aiutava in questo; certi titoli!
Certe elucubrazioni, tutte quelle raffinate frecciatine… Era ormai convinto che per essere assunti a lavorare in un giornale bisognasse in specifico auspicare una rivolta stile barricate di Parigi, saper convincere la popolazione a farsi giustizia da sé ma, soprattutto, detestare le autorità costituite. Era in quell’umore, dunque, tra l’esasperato e il ringhioso, quando un dottorino tremante e con delle briciole sui baffi si presentò a costituirsi e iniziò a parlare dello sconosciuto che l’aveva morso in un vicolo (nessun riferimento alla famiglia reale, si capisce) e della foga
omicida che lo coglieva nei giorni di luna piena (altro dettaglio tecnicamente inesatto).
Incerto se farlo rinchiudere in un manicomio o cacciarlo a calci dalla stanza, credette o perlomeno finse di credere ad una delle accuse che aveva lanciato su se stesso, quella dei referti falsificati.
Il che smontava l’intero caso: non vi era alcun ritorno dello Squartatore, solo una serie di delitti probabilmente senza alcun collegamento tra loro.
Pace dei sensi. La stampa avrebbe smesso di tormentarlo.
Quando l’ometto gli fece presente di non averlo ancora arrestato, Lestrade sbadigliò e bofonchiò qualcosa riguardo il sano lavoro manuale unito al clima incomparabile dell’Australia, facendolo portare via.
“Non lo ha ancora scritto. Ripeti con me, Donna…” All’ingresso del pub dove avevano visto entrare Arthur Conan Doyle, il Dottore voleva essere sicuro che avesse imparato il copione.
“Quando mai ho parlato a un autore di un’opera che non ha
ancora scritto?”
Il Dottore fissò Donna con sguardo divertito. Lei ricambiò lo sguardo con aria di sfida.
“D’accordo, d’accordo! Ma-”
“Ssssh! Guarda, due piccioni con una fava!” Doyle aveva infatti raggiunto il tavolo di un amico. “Quello è James Barrie!” sussurrò il Dottore coprendosi la bocca con la falda del cilindro.
Donna restò a bocca spalancata, ma prima che una mosca avesse il tempo di entrarci i due uomini avevano preso a discutere fitto fitto sulla prima pagina del giornale, dove mentre si presentava insieme al Dottore poté sbirciare la notizia dell’arresto di Watson.
“La signora qui presente è una vostra ammiratrice, sapete?”
Donna sfoderò il suo miglior sorriso. “Ho apprezzato grandemente Il mistero di Cloomber” esordì, sperando di averlo pronunciato giusto. “Ma avete mai pensato di scrivere… vediamo… su un grande detective?”
Il Dottore gemette con la testa fra le mani e si arrese. Quando rialzò il capo, vide qualcuno che stava per avvicinarsi al tavolo, qualcuno che conosceva molto bene… e scavalcò una sedia per raggiungerlo.
Questi rimase immobile, iniziando poi a ridere come pervaso da un
sollievo incredibile.
“Dottore! Sei tu! Sei davvero tu…”
“Buonasera, amico mio. È bello ritrovarti” rispose lui con un sorriso
triste.
“Torneremo a viaggiare, non è vero? Sai che adesso quando mi fanno fuori torno in vita? Non so come sia successo, ma è incredibile!”
Jack correva all’indietro davanti al Dottore, senza neanche notare dove stessero andando, parlando a raffica. Era chiaro che fra poco sarebbero arrivati alla cabina blu e lui gli avrebbe riparato il manipolatore del Vortice, poi…
Il vicolo era deserto. Il Dottore si fermò, Jack si guardò intorno sorridendo, ma non vedeva il TARDIS da nessuna parte. “Volevi proprio che restassimo soli, eh?” rise.
Il Dottore si avvicinò e posò le dita sulle tempie di Jack. “Sarai un’ottima risorsa per il Torchwood. Sarai un’ottima risorsa per questo pianeta ancora molto, molto a lungo. Ma non era ancora il momento di rivedermi, per te.” Lui arrossì, aprì la bocca per protestare o baciarlo o non si seppe mai che cosa… e svenne tra le sue braccia. Il Dottore quasi inciampò nel sostenerlo, e faticò nel metterlo in una posizione più comoda, appoggiato al muro come un qualsiasi ubriaco addormentato. Gli dette un buffetto sulla guancia e gli spettinò i capelli. “Arrivederci, Capitano”.
Tornò al pub e restò a guardare da lontano Donna, presa in una conversazione animata con i due scrittori. A essere sinceri, lei parlava, loro… beh, prendevano appunti. Non si arrabbiò nemmeno.
Più tardi, tornando al TARDIS, le raccontò quello che era stato costretto a fare: non poteva interferire con il destino di Jack Harkness, perciò aveva usato i suoi poteri da Signore del Tempo per fargli perdere i ricordi di quel giorno.
“Che cosa terribile” pensò Donna. “Ma si rivedranno, non è che abbia cancellato tutto. Sarebbe davvero peggio dimenticare di aver viaggiato, esplorato, immaginato, lottato e sperato al fianco del Dottore. Sarebbe davvero il destino peggiore che riesco ad immaginare”.