The God Complex – 10 anni dopo
C’è stato un periodo in cui se mi chiedevano quale fosse il mio episodio preferito della nuova serie di Doctor Who… rispondevo che era questo. Non perché ne ricordassi esattamente la trama, anzi non avevo nemmeno più in mente come finisse. Se mi avessero chiesto: “Qual è il vero aspetto del Minotauro?” il mio sguardo sarebbe diventato vacuo e avrei fatto una smorfia molto imbarazzata. No, ciò che mi spingeva ad affermarlo con sicurezza era la sensazione che mi aveva lasciato, come la scia di un profumo. La certezza delle emozioni che avevo provato guardandolo.
I due concetti fondamentali che reggono l’episodio sono due: il Dottore sbaglia, il Dottore mente. Nulla di nuovo, certo.
Il Dottore mente di continuo, è una regola; nasconde i suoi sentimenti e qualche volta esprime l’esatto contrario di ciò che prova, come quando in “The Ark in Space” insulta Sarah Jane per motivarla mentre è incastrata in un tunnel. Lo fa a fin di bene, ma noi spettatori ci immedesimiamo nel companion di turno e ci sentiamo indispettiti, delusi… sfiduciati. Sappiamo che era l’unico modo per salvare Amy, ma è davvero doloroso assistere a quella scena.
Il Dottore non riesce sempre a sconfiggere gli alieni cattivi né a salvare tutti quanti, e quando viene posto davanti ad un mistero non indovina per forza al primo colpo. Non gliene si può fare una colpa, nemmeno Sherlock Holmes ha sempre centrato il bersaglio (leggete “The Adventure of the Yellow Face” se non ci credete). Il Dottore sbaglia e il suo errore costa la vita a Howie e Rita, ma è un essere imperfetto, ed è questo che vuole far capire ad Amy, a se stesso e a tutti noi.
Il Dodicesimo mi ha ricordato la stessa cosa, quando l’ho sentito affermare di essere “un idiota con una cabina e un cacciavite, che dà una mano e impara”.
L’insegnamento alla fine è lo stesso. Le persone che ammiriamo possono meritare la nostra fiducia, ma non una fede cieca – la fede è un valore che dovrebbe darci forza e farci aprire gli occhi, non chiuderli senza avere consapevolezza di sé, senza avere il controllo della nostra vita, delle nostre scelte.
Il retrogusto piacevolmente amaro dell’episodio non mi abbandona dopo tutti questi anni, il bilanciamento fra vittoria e sconfitta trascende la memoria e lascia una soddisfazione da intenditori.
QUARANTACINQUE MINUTI DOPO…
A livello visivo è appagante. Un vetro rotto, i particolari fisici del Minotauro, spiccano nell’atmosfera scialba e rétro dell’albergo.
E se c’è una cosa che mi piace in una puntata sono gli elementi conosciuti: il Sontaran e la donna-gatto infermiera fra le vittime del passato, la specie del Minotauro che presenta affinità con quella dei Nimon (conosciuta in un serial con il Quarto Dottore). E naturalmente la razza dei Tivoliani tornerà nella nona stagione. Sono convinta che la mancanza forzata di personaggi e alieni ricorrenti sia stata una delle ragioni per cui la prima stagione del Tredicesimo sia così dibattuta.
Rita è meravigliosa e sarcastica e vorrei portarmela a casa prima della sua orribile fine. Ho condiviso l’estrema attrazione intellettuale del Dottore per lei, un’attrazione che posso paragonare solo con quella che ho più tardi provato per Osgood.
Sul tema della paura – un’emozione secondaria per la creatura, ma esplicita nella costruzione dell’episodio – i miei pensieri si sono concentrati su una riflessione principale.
Ci sono paure ancestrali: il buio, le maschere, gli insetti. Ci sono paure acquisite: un animale che ci ha morso in passato, il cattivo di un film visto in TV da bambini. Su tutte si può lavorare per sconfiggerle, ma nessuno ha colpa.
Quando invece la paura fa il nido e cresce nel nostro intimo perché qualcuno l’ha fatta nascere – un padre troppo esigente per Rita, coetanee sprezzanti e crudeli per Howie – ecco svelarsi il vero orrore dell’umanità.
Per la serie “ricordavo diversamente”, ero sicura che il Dottore avesse spinto Rita con molta più energia a contrattaccare il Minotauro con la propria fede, invece il suo incoraggiamento è piuttosto disperato e meno incisivo. Anche il suo discorso ad Amy è diverso da come lo rammentavo; è incredibile, dal mio punto di vista, come la mente ricostruisca a modo suo, e dal punto di vista del Dottore… come il senso di colpa possa dilagare e colpire nel profondo. Il Dottore ha subito una quantità di traumi incredibile, ha perso un poco di sé ogni volta che un suo companion o qualcuno a cui si era affezionato durante i suoi viaggi è morto o è stato lasciato indietro contro la propria volontà.
Solo che il senso di colpa raramente si trasforma in senso di responsabilità. L’episodio è uno di questi esempi: lui lascia andare Amy, regala a lei e Rory stabilità e sicurezza.
Lo fa anche per un altro motivo, in realtà. Sta accettando la propria morte imminente, e non vuole trascinare con sé coloro che ama.
“Amy Williams, smettila di aspettare” le dice. E non lo fa solo per salvarla dalla creatura, sono parole che forse le avrebbe comunque detto (a parte il dettaglio crudele sulla propria vanità) perché il suo destino è segnato, come il Minotauro stesso gli ricorderà nelle sue ultime parole. Come la balena astrale in “The Beast Below”, come l’androide in “Deep Breath”, le creature antiche come lui gli fanno da specchio e questa riflessione lo spinge a rallentare per affrontare la propria coscienza, nel bene e nel male.
L’ultima inquadratura di Amy è alla finestra. Ma non sta più aspettando. O forse sì? Sappiamo tutti come andrà a finire, dopotutto.