DWOT 04/05/2020 – quello sul Settimo
Ciao a tutti, settima parte di questo Discussing the Wonders of Our Tale, il mio personale spaccato sui Dottori. Siamo esattamente a metà, anche se sono indeciso se estendere e farne uno sui dottori extra, come quelli di John Hurt, di Jo Martin, di Rowan Atkinson e di Richard E. Grant, ma forse diventerebbe un po’ un minestrone. Sono aperto a suggerimenti!
Eravamo rimasti al brutale licenziamento di Colin Baker, ma devo correggere un dettaglio: proposero a questo di fare tutta la prima avventura, che si sarebbe intitolata Strange Matter e che avrebbe visto la sua rigenerazione alla fine. Per l’attore avrebbe significato dover declinare ogni altra possibile offerta di lavoro nel frangente di tempo, dopo aver ricevuto un trattamento orribile, così fu piuttosto chiaro nel rispondere che non sarebbe mai successo. Anche lo script editor, precedentemente Saward mancava e dover rimpiazzare il protagonista significava fare tutta una serie di cambiamenti, come avere un nuovo costume e dover scrivere sceneggiature adatte. Un po’ come premio per aver silurato Colin, un po’ per non trovarsi anche in mancanza di produttore e forse un po’ per lasciare affondare la nave con un capitano, John Nathan-Turner venne rinnovato, ma non gli venne data carta bianca sulla scelta dell’interprete principale. Così, quando venne tirato in ballo il nome di Sylvester McCoy, principalmente coinvolto in varietà teatrali e questi si esibì in un provino brillante, gli venne subito proposto un contratto, nonostante fosse poco familiare con il ruolo.
In quest’ultima era della classica è evidente che i pezzi grossi BBC non fossero assolutamente intenzionati a mantenere il programma, che vide tagli di budget, restrizioni sui contenuti e un passaggio dal sabato sera al mercoledì. La linea che dichiaravano era che, per far risorgere il programma avrebbero dovuto cambiare il produttore, ma non avevano alcuna intenzione di farlo. In pratica, attendevano che lo show non fosse più giustificabile per segarlo completamente, probabilmente contando di terminare la stagione e basta.Questo per dirvi quanto è stato straordinario che la serie abbia continuato per altre tre stagioni intere. Nonostante non vada messo in secondo piano un John Nathan-Turner ancora agguerrito, il merito dell’impresa va a due uomini: Sylvester McCoy e Andrew Cartmel.
Cartmel divenne il nuovo script editor: curiosamente, non gli fu attribuita nessuna delle sceneggiature delle ultime dodici avventure del Dottore, ma è evidente che il suo contributo fu determinante. La serie presenta il nuovo Dottore come un personaggio esageratamente comico e impacciato, che occasionalmente rasenta scene che potremmo vedere bene in una storia di Pippo, esempio di cui è il cliffhanger (ossia lasciare una scena sospesa alla fine di una puntata, dal termine inglese che renderemmo con sospeso nel vuoto) letterale di quando, in Dragonfire, durante una sortita in solitario, il Dottore, non provocato da nulla, decide di scavalcare un parapetto, calarsi fino a esservi aggrappato solo con le mani e, quindi ancora giù per la lunghezza del proprio ombrello, accompagnato da crescendo di musica tesa che culmina nella sigla di chiusura. L’episodio successivo rivela che si trova ormai a meno di un metro da terra e non verrà mai chiarito il senso della scena, lasciandomi a oggi completamente allibito. Tuttavia, il tono del Dottore cambia in modo sottile e graduale, ma lascia comunque spiazzato la prima volta in cui lo vediamo per chi è realmente.
Il settimo è un Dottore spietato, machiavellico. Ha un senso di moralità ben definito ed abbraccia a pieno la propria crociata contro le forze del male, siano questi regimi totalitari, critica alla politica tatcheriana, come in The Happiness Patrol, in cui il TARDIS viene dipinto di rosa perché il blu è considerato un colore troppo triste, o grandi antichi di fattura lovecraftiana, come la famiglia Ragnarok o Fenric, la natura dei quali lo show lascia volutamente nel vago, dando al Dottore battute poetiche sull’origine del male, per poi rivelare che non è Fenric il male, ma che quest’ultimo non ha nome e dietro al titolo “divinità”, si nasconde solo una versione malvagia del genio della lampada, impotente di agire indisturbato.
Ritornano anche vecchi nemici, come nell’eccelso Remembrance of the Daleks, storia che accredita il multitasking nel curriculum: segna il ritorno e una degna conclusione per i dalek e per il loro creatore, con la distruzione di Skaro (sì, nessuno ha mai spiegato come sia tornato il pianeta nella serie), anche espandendo su di loro, mostrando per la prima volta come possano levitare sopra le scale o con i Dalek d’assalto; ammicca costantemente alla prima puntata, facendo atterrare il TARDIS nella stessa discarica del primo episodio, essendo ambientato nel ’63 e mostrando, in una singolare rottura (costruzione?!) della quarta parete, la messa in onda del “nuovo show, Doctor Who” su una televisione a caso; dopo aver chiarito quanto sia idiota che due fazioni dalek combattano tra loro distinte solo dal colore della loro cromatura, mostra svariati esempi di razzismo tra esseri umani; rinforza i personaggi del Dottore e di Ace con sottotrame che cementano sviluppi futuri; infine non trascura di raccontare una storia avvincente con momenti memorabili, come l’assalto di Ace a un Dalek con una mazza da baseball caricata di energia gallifreyana. Must per ogni appassionato.
Inoltre il Settimo non ha problemi a giostrarsi con più nemici insieme, meccanica ripresa dall’Undicesimo che ne condivide la natura machiavellica, come si vede in Silver Nemesis in cui sia i Cybermen, che l’incantatrice Lady Peinforte che, in una mossa alla Blues Brothers, dei neo nazisti oppongono il Dottore. Questo svende forse la minaccia che gli antagonisti effettivamente pongono, ma racconta bene che il Dottore è la forza predominante in campo, proprio come sarà nell’era di Moffat: è sempre lui il burattinaio supremo, che tira i fili di tutti i giocatori, pianificando mosse secoli prima che vengano effettuate. A differenza di ogni suo predecessore, il settimo Dottore è un vero e proprio superuomo, completamente privo di veri e propri difetti o punti deboli, senza l’ego del Sesto o l’indecisione del Quinto. Il che porta a un problema narrativo: come si può empatizzare con un simile protagonista?
Domanda a trabocchetto: con l’eccezione della prima stagione, in cui il Dottore aveva effettivamente il punto debole di essere poco serio e imbranato, dall’avvento della seconda companion – dove la prima è una Melanie Bush presentata con il Sesto e privata dell’iniziativa che aveva mostrato in Terror of the Vervoids – Dorothy Gale McShane, ma potete chiamarla Ace, analizzando le storie tramite una chiave tradizionale, la protagonista è lei. È lei che compie il classico viaggio dell’eroe, lei che corre rischi veri e propri, lei il personaggio con cui il pubblico deve empatizzare. Questo è solo uno dei motivi per cui Ace viene considerata la prima concezione moderna di companion, in cui questa non è più solo damigella in pericolo o un segnaposto per il pubblico, ma una ragazza realistica, con emozioni complesse e personalità tridimensionale, accompagnate a un’importante trama orizzontale che non stonerebbe nella serie nuova. Nel finale di The Curse of Fenric, viene rivelato che, con enorme sorpresa del Dottore, il titolare nemico è riuscito effettivamente a pianificare meglio di lui, facendogli incontrare la ragazza che lo ha seguito, segretamente un suo agente inconsapevole, richiamando a eventi che il pubblico aveva visto nel finale della precedente stagione.
Questo battezza la caratteristica trama orizzontale, si potrebbe discutere che il termine “Bad Wolf” sia un omaggio proprio ai “lupi di Fenric” (il cui nome deriva ovviamente dal lupo della mitologia nordica), come erano chiamati i suoi seguaci. Una cosa interessante è che, per ragioni troppo lunghe da riassumere qui, il vero vantaggio che Fenric aveva creato era la fede che Ace pone nel Dottore, problema che questi risolve in un dialogo analogo a quello tra l’Undicesimo e Amy in The God Complex. Quello che, però, può davvero stupire della dinamica tra Dottore e Ace, oltre a una comune passione per gli esplosivi ad alto potenziale, è che questa abbia i toni di quella tra insegnante e allieva, completamente voluta visto che la ragazza chiama il Signore del Tempo “Professor”, addirittura come se il Dottore stesse addestrando una recluta per la propria guerra contro le forze del male, tema poi ripreso Journey’s End con i “figli del tempo”, le persone che il Decimo ha reso in grado di combattere. La cosa da portare a casa è questa: la serie nuova cita in continuazione la classica con battute e ammiccamenti, tipo tutte le volte in cui si dice di invertire la polarità del flusso, ma non ha bisogno di citare l’era del settimo Dottore, che è parte integrante del proprio corredo genetico.
Ho scritto in passato che dividere Doctor Who in nuova e classica è riduttivo, perché passa tanta distinzione tra primo e settimo Dottore che tra, per dire, quinto e nono: allo stesso tempo, la serie è una e una sola. Stiamo ancora costruendo sul primo Dottore che ha imparato ad apprezzare gli esseri umani, sulla crociata contro al male del Secondo, sul peso delle responsabilità del Terzo, il senso di avventura del Quarto, la relazione con i companion del Quinto, la persona tormentata del Sesto e, più importante di recente, la mitologia del Settimo. L’ironia è che Cartmel è stato responsabile di tutto questo, guidando i vari sceneggiatori in modo più marcato delle serie passate, ma che la serie non gli ha dato il tempo di concretizzare la propria visione, quello che i fan chiamano Cartmel’s Masterplan: rivelare che il Dottore sia molto di più di un Signore del Tempo – razza presentata come quasi onnipotente in The War Games nel finale del secondo, ma gradualmente rimessa in prospettiva con l’avvento di potenze superiori come Eterni e Guardiani – ossia che si tratti della reincarnazione di uno dei tre fondatori di Gallifrey, The Other, che gli avrebbe dato la stessa aria divina di Rassilon e Omega, difficile da spiegare vista la rappresentazione che il primo dei due ha avuto nella serie nuova.
Questo però chiedeva un attore capace di rendere credibili scene in cui il Dottore finge di essere un pagliaccio e fa routine di prestidigitazione un momento, è un severo insegnante quello dopo, per poi diventare una figura paterna, qualcuno che si finge una preda in fuga, quello che era il predatore fin dall’inizio. Sylvester McCoy poté tutto questo e anche di più. Percy James Patrick Kent-Smith, che adottò prima Sylveste e poi aggiunse la “R” come proprio nome d’arte, si esibiva in numeri da stuntman da palcoscenico, piantandosi chiodi nel setto nasale e infilando furetti nei propri pantaloni, cosa che sicuramente gli ha dato le basi per alcune delle azioni incredibili che compie, diverso nella forma, ma non nel contenuto del valore aggiunto che un maestro marziale come Pertwee diede alle scene d’azione. E dove il personaggio ha costruito il più possibile su questo talento scenico particolare, l’attore ha saputo interpretare ogni istante del ruolo, nonostante passasse attraverso cambiamenti repentini e chiedesse performance complesse, come fingere di essere qualcuno che finge di essere qualcun altro. Come Colin Baker e Davison, anche McCoy è ancora attivo nel ruolo, nelle audioproduzioni Big Finish e un titolo che mi sento di consigliare è Master, dove il Dottore ha un particolare confronto con il Maestro.
Proprio quest’ultimo è l’ultimo nemico affrontato dal Dottore in Survival che chiude quest’era avendo un’aria di finalità, sebbene sia stata aggiunta all’ultimo secondo. Interessante per ragioni di ambientazione che di nuovo non starò a riassumere in questo trattato, Survival riassume la moralità complessa del settimo Dottore, ponendolo in una lotta disperata per la sopravvivenza e di fronte alla tentazione di ottenere poteri ferali tramite una corruzione che invece subirà solo il Maestro e che verrà mantenuta nel film del ’96. La penna di Cartmel scrive l’addio del Dottore al pubblico.
Il settimo Dottore è stato straordinario, emancipandosi dalle costrizioni della TV anni ’80 e in parte saltando anche la decade successiva. Unico freno alle puntate, secondo il mio palato, è l’impostazione ormai obsoleta che mantiene nelle storie che divide in quattro parti da una ventina di minuti, richiedendo un climax alla fine di ogni episodio che ricorda il cliffhanger citato prima. La serie non vide, però, un aumento degli ascolti, orbitando sui 5 milioni di spettatori a puntata come dal finale del Sesto. Se oggi possiamo apprezzare la meraviglia di quest’era, i magnati BBC all’epoca non volevano che liberarsi della cabina blu e ci sono alla fine riusciti. Tuttavia non puoi uccidere una storia: sono solo riusciti a tenerla sotto il pelo dell’acqua, nascosta alla vista. E quest’apnea è davvero soprendente, perché vedremo riemergerla addirittura al di là dell’oceano Atlantico, in Canada, dove il sex appeal del personaggio salirà a livelli intergalattici con la sua interpretazione di Paul McGann. Ma, fino ad allora…
~Six